lunedì 3 ottobre 2011

Amanda e Raffaele liberi. Il colpevole è il magistrato

Amanda è libera. E con lei anche Raffele Sollecito. La Corte di Assise d’Appello di Perugia ha assolto i due giovani per non aver commesso il fatto, ribaltando la sentenza di primo grado che vedeva condannati l’una a ventisei, l’altro a venticinque anni. Una sentenza quindi che non lascia adito a fraintendimenti. Cade infatti l’ipotesi più ventilata, quella di un’assoluzione per insufficienza di prove. Le prove sono sufficienti eccome, secondo i giudici, e scagionano totalmente Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Non lo sono, invece, per quelli che, fuori dal tribunale, urlavano vergogna.

Le sentenze non si discutono, si accettano, si dice. Non in Italia comunque, dove anche quello che dice la Bibbia è suscettibile di interpretazioni contrastanti, addirittura opposte. Sebbene sia doveroso precisare che non solo l’Italia si è distinta per l’accanimento con cui si è prodigata nel seguire questa vicenda, è evidente che noi padroni di casa non siamo stati affatto inclini a cedere agli inglesi e agli americani il primato di santi inquisitori che ci siamo cuciti addosso, per quanto si siano spesi anima e corpo per sottrarcelo. Non entrerò nel merito della vicenda processuale, di cui peraltro poco mi interessa. Quello che conta, alla fine di un procedimento, è la sentenza. Non solo si può, ma si deve resistere alla disgraziata tentazione di improvvisarsi giudici per criticare questa o quella decisione della Corte. Gli italiani, tra il boia e il morituro propendono sempre dalla parte del boia, qualsiasi sia la colpa del morituro. E sebbene non ci fossimo ancora riavuti dalla cantonata presa con Michele Misseri, non abbiamo esitato a ripeterci appena si è presentata un’occasione. Prova, questa, che se gli italiani fossero tutti giudici non ne azzeccherebbero una. Qualcuno potrebbe obiettare che spesso nemmeno i giudici l’azzeccano. È vero, ma almeno loro lo fanno con cognizione di causa. In effetti c’è la sottile ma diffusa idea che un processo, per quanto sia complesso e articolato, debba seguire un determinato corso, ma quale sia questo corso – il giusto corso – sta a noi singoli stabilirlo a seconda della parte per cui propendiamo. E laddove non coincida con quello reale, siamo legittimati a urlare la nostra vergogna.

La sentenza di Perugia getta certamente un’ombra sulla morte di Meredith. Ma ne getta una ancora più grande sull’Italia moralista e inquisitrice. Quell’Italia che non critica i politici sottratti dal voto dei colleghi alle inchieste dei magistrati perché scampati al corso naturale della giustizia, ma perché li ritiene, esplicitamente o implicitamente, già colpevoli. A ben vedere, non fa rabbia che i parlamentari godano di immunità o che non si esimano dal farne puntualmente ricorso. Fa rabbia il fatto che siano colpevoli. A priori e senza sentenza. Si badi, spesso è lecito credere che non siano innocenti, ed è assolutamente legittimo farsi un’opinione in merito. Quello che dovrebbe però smuovere le coscienze non è la propria idea sulla colpevolezza di una persona, quanto l’uguaglianza nel trattamento di fronte alla legge. Lo stesso vale per Amanda e Raffaele. Chi ha urlato vergogna, si spera lo abbia fatto non perché fermamente convinto della colpevolezza dei due giovani, ma perché, dopo una così lunga vicenda processuale, aveva oramai bisogno di un colpevole, chiunque esso fosse. Di buone intenzioni, si sa, è lastricata la via dell’inferno, e per questo è lecito credere che i cori di protesta fossero tutti mossi dall’urgenza di assicurare giustizia alla povera Meredith. Ma non è ragionando con la pancia che si è reso un favore alla disgraziata.

Fino a prova contraria si è innocenti, questa è una regola che vale da sempre. E proprio perché vale da sempre, viene continuamente infranta. Ieri si è giocata una partita anomala. Non si doveva decidere se Amanda e Raffaele fossero colpevoli o innocenti. Si doveva decidere chi fosse il colpevole tra loro e la pubblica accusa. Chi era fuori dal tribunale era pronto a fischiare o gli imputati o i magistrati. L’importante era avere qualcuno da fischiare, ed è toccato ai giudici, rei di non aver confermato la sentenza di primo grado emanata da un altro tribunale. In un’Italietta che si trascina ancora residui e sapori da Sant’Uffizio, fa sorridere che il suo primo ministro sia contestato proprio per il suo rapporto con la giustizia. Il vero guaio è che l’Italia e la legge non vanno proprio d’accordo. L’idea che i cittadini hanno delle regole non è meno aberrante di quella che ne ha chi li rappresenta politicamente.


Si dice che gli italiani debbano essere tutti uguali di fronte alla legge. Ma la Legge è uguale di fronte agli italiani?

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