mercoledì 14 settembre 2011

L'altra Italia









La scena che vede l’ex ministro Andrea Ronchi all’uscita di Montecitorio insultare i manifestanti dei Cobas potrebbe essere interpretata da qualcuno come la fine di un’era. Un po’ come lo fu, con le dovute precauzioni, il lancio di monetine in direzione di Craxi davanti all’Hotel Raphael. Ma si sbaglierebbe.

La fiducia degli italiani nei confronti della classe politica è certamente poca, ma quella degli italiani in se stessi è probabilmente nulla. È certamente facile, e doveroso, criticare i nostri parlamentari, che da tempo immemore si comportano al di là di ogni limite della comune decenza. È tuttavia doveroso, ma più difficile, criticare la società italiana, che quella classe politica l’ha scelta e l’ha difesa, fino a quando non si è resa conto, con colpevole ritardo, della fregatura che le è stata riservata. Gli italiani sono spesso stati guidati dalla loro doppia morale, che applicavano all’universo a seconda della loro convenienza. Perché è sempre stata la convenienza, personale o di casta o di partito o di gruppo, l’unico punto fermo dell’agire nostrano, da quando l’Italia è nata – se è nata e quando solo Dio lo sa. Va di gran moda oggi appostarsi fuori dalle aule del Parlamento e gridare “buffoni” ai politici che si tuffano lestamente nelle loro auto blu. Non che non siano buffoni, è chiaro. Ma è un po’ troppo semplice, e anche infantile, mettere sulle poltrone dei cialtroni patentati per poi, quando si capisce d’aver preso il granchio, pretendere che le liberino al nostro schioccar di dita. Ora che stanno seduti, non s’alzeranno fino a quando il loro didietro non bruci. Con ciò non intendo fare un’inutile polemica. Intendo soltanto dire nient’altro che questo: va bene criticare i politici, e a volte anche insultarli, dato l’inesorabile declino a cui ci stanno condannando. A patto che non dimentichiamo la nostra fetta di responsabilità, che è pure bella grossa. Noi italiani non siamo soliti far ricorso all’esercizio della memoria, e ce ne accorgiamo ogni volta che ci fregiamo del mito della Resistenza, lasciando nel cantuccio dei ricordi impolverati l’altra Italia, quella di Piazzale Loreto, troppo diversa e troppo colpevole. Quell’Italia che senza scrupoli sputò, orinò, insultò, vessò, sparò sui cadaveri a testa in giù dei capi fascisti, gli stessi capi i cui nomi erano acclamati dalla folla soltanto pochi anni prima.

Sicuramente noi italiani ci conosciamo meno di quanto ci piacciamo. E probabilmente ci piacciamo meno di quanto pensiamo.



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