lunedì 19 settembre 2011

Crisi: è l'ora di lasciarsi andare al panico

Che di tutti i possibili approcci da assumere nell’affrontare la crisi economica mondiale, l’Italia abbia scelto il peggiore, è fuor di dubbio. Se dovessi scommettere ora su chi avrà la meglio tra il default e il nostro paese, non avrei alcuna esitazione su chi puntare: Italia – Crisi, due secco. È un po’ come se fossimo andati a un funerale con un vestito giallo sgargiante: l’abbiamo presa dal verso sbagliato. Il motivo è presto detto: un presidente del Consiglio la cui immagine è oramai compromessa sia sul piano nazionale, sia su quello internazionale, viepiù su quello dei mercati; il ministro dell’Economia il cui braccio destro Milanese è infangato nella vicenda P4; un leader dell’opposizione il cui braccio destro Penati è coinvolto in un’inchiesta di tangenti di cui non si poteva non essere al corrente; una manovra economica considerata da tutti gli esperti in materia finanziaria inadeguata, e per giunta controproducente per il paese; il leader del secondo partito di governo che, invece di chiamare a raccolta il paese per uno sforzo nazionale, pensa a indire un referendum per la secessione della Padania. È meglio fermarsi qui, se ci teniamo ancora a mantenere viva qualche flebile speranza. La situazione è di quelle che giustificano il più querulo allarmismo. Sebbene allarmarsi possa spesso essere nocivo, il non allarmarsi alle volte può essere letale. E noi italiani, esperti di vaglia nel “va tutto bene” potremmo imparare presto questa lezione. L’Italia sta affondando, questo qualcuno sembra averlo capito, altri no. Ma ora poco importa. La ricetta sicura per uscire da questa crisi, è bene chiarirlo, non la conosce nessuno, non la conoscono i tedeschi, tantomeno gli americani. Non è mia intenzione quindi stabilire qual è la soluzione alla crisi, non avendone né la capacità né la qualifica per farlo. Si possono però azzardare ipotesi su quali siano le condizioni migliori per affrontarla. E la prima è senza tema d’errore quella di un nuovo esecutivo. Chiunque andrebbe bene per presiederlo, anche la portinaia del nostro condominio (si fa per dire). I mercati già reagirebbero positivamente a un ricambio politico ai vertici. Ma questo può andar bene nel brevissimo termine, nel medio già sarebbe insufficiente e necessiterebbe di ulteriori accorgimenti. Inoltre, non c’è da spenderci più di una riga: Berlusconi non si schioderà dalla sedia nemmeno se fuori impazzasse la rivoluzione, e i suoi gregari non accennano minimamente all’idea di farlo sloggiare. Sperare nei giudici è allo stesso tempo pericoloso e inconcludente. Non solo non hanno i mezzi per sbattere il premier in galera o per indurlo alla latitanza, ma laddove ci riuscissero, metterebbero l’Italia di fronte a una sconfitta cartaginese, una Caporetto senza speranza di una Vittorio Veneto. Sarebbe una revolverata alla nuca per la politica italiana, perché privata della sua stessa ragione d’essere (lo tengano a mente coloro che sperano sempre e solo nella via giudiziaria). Se la politica ha da risollevarsi, è bene che lo faccia da sola, altrimenti è meglio che chiudiamo baracca – perché questo sta diventando il nostro paese, una baracca. Ma continuiamo. La Lega va fatta fuori: è ora di darci un taglio con l’idiozia della secessione di Bossi, che Maroni più bonariamente definisce federalismo, ma che sono in fondo la stessa cosa. Non si può amministrare un intero paese senza nemmeno fare mistero del reale intento di frantumarlo. È bene che questo punto sia chiaro, soprattutto a chi dice che ai leghisti non va dato tutta questa importanza: le fesserie padane ce le propinano da vent’anni, e se oggi l’Italia regge l’anima per i denti è anche grazie alla conventicola di Bossi. Se un giorno una bella fetta di Italia settentrionale si sarà lasciata convincere dalle fregnacce leghiste, sarà anche colpa nostra. Su questo, il Presidente della Repubblica potrebbe anche concedersi una licenza di deroga, e richiamare all’ordine Bossi. Nessuno glielo rinfaccerebbe, eviterebbe piuttosto che qualcuno un giorno prenda in mano il forcone e la faccia finire a pesci fetenti.

L’opposizione è meglio che si organizzi, ma non a chiacchiere come pensa di fare Bersani. Che, come primo segnale, potrebbe finalmente indire le tanto agognate primarie del Pd, a cui oramai non frega più a nessuno, ma che andrebbero fatte solo per principio, per misurare la sua reale propensione a fare quello che dice, e non solo a dire quello che vorrebbe fare. In tal caso, potrebbe anche capitare che gli soffino il posto, e non saremmo di quelli che se ne rammaricheranno. Se dovesse vincerle, invece, ne uscirà più forte che mai, e avrebbe già un piede a Palazzo Chigi. La maggioranza dovrebbe invece passarsi una mano per la coscienza, che già sa di avere parecchio sporca, dopo che ha stuprato la sacralità del Parlamento facendo mettere agli atti la balla che Ruby fosse, secondo B, la nipote di Moubarak. In Italia, si sa, le questioni non si risolvono mai alla luce del sole, si preferiscono i sotterfugi e i compromessi. E allora vi ricorressero. Prendessero accordi sottobanco con la minoranza, e se non vogliono perdere la poltrona andando alle elezioni, si accordassero per un governo di tecnici. Di tecnici seri, però, non di parolai e pataccari. Mettessero su una nuova manovra finanziaria, una riforma della legge elettorale e una riforma tributaria che scongiuri l’evasione fiscale, il vero cancro del paese. In due anni possono farlo, se vogliono. I privilegi e gli stipendi se li tengano pure. Delle loro elemosine non sappiamo che farcene in questo momento. Non è il tempo di riacquistare la fiducia nella classe politica, ma quello di mettere al sicuro i gioielli di famiglia prima che la casa crolli. Se ci riusciremo, allora la classe politica ne uscirà – leggermente – rivalutata. E anche il nostro paese. 

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