giovedì 22 settembre 2011

Milanese è salvo. Chi ha tradito il traditore?

Milanese è salvo, e il governo pure. La maggioranza li ha graziati, con l’ultimo scatto di indecenza e di doppiopesismo. Dopo aver votato per la reclusione di Alfonso Papa, stavolta la Camera ha detto no al carcere per Marco Milanese, braccio destro di Giulio Tremonti, ministro dell’Economia. Era un voto importante, una resa dei conti, da cui dipendeva la tenuta o meno del governo. Lo stesso Bossi aveva detto ieri che avrebbe votato per “non far cadere il governo”. Un’occasione unica, quindi, per mettere fine allo scempio a cui stiamo facendo da astanti. Ma che non è stata colta, come sempre.

Con 312 voti favorevoli e 305 contrari al respingimento dell’arresto, il governo può andare avanti, seppur debole come non mai. I conti infatti non tornano. Mancano sette voti all’appello, quasi certamente da rintracciare nello schieramento leghista. Sette franchi tiratori sebbene non siano pochi, comunque non sono abbastanza. Ci si aspettava che la segretezza del voto potesse favorire un moto di coscienza nei parlamentari, o anche solo lo sfogo di certe acredini nei confronti di Milanese e soprattutto di Tremonti da parte dei suoi alleati. E il fatto che il ministro dell’Economia non fosse in aula lascia intendere molto bene in quale clima si sia svolta la votazione. Ora tocca vedere quale sarà il prezzo da pagare alla Lega per l’ultimo soccorso prestato a Berlusconi. Perché, questo è fuor di dubbio, Bossi chiederà qualcosa in cambio. Cosa non lo sappiamo, ma ce ne accorgeremo presto.




Insomma, facendoci forti dell’ennesima sconfitta della nostra classe politica, possiamo arrivare a questa conclusione. Che nemmeno la segretezza del voto è riuscita a indurre i nostri parlamentari a uno scatto di dignità e di decenza. Il Parlamento, per salvare Berlusconi dai giudici, è riuscito nell’ardua impresa di tradire persino la sua originaria natura: quella del traditore. 


mercoledì 21 settembre 2011

Presidente Napolitano: sciogliere le Camere o le riserve?

La stavamo aspettando con ansia. Con leggero ritardo, la risposta del Presidente della Repubblica alla deriva secessionista di Umberto Bossi è finalmente arrivata: “Agitare ancora la bandiera della secessione significa porsi fuori dalla storia e dalla realtà”. E tuttavia non sappiamo se rallegrarcene per il fatto che sia arrivata sotto forma di replica esplicita, o se dispiacercene perché non ha assunto il tono severo dell’ammonimento. Gli avvertimenti, lo abbiamo capito, non sono nelle corde di Napolitano, ad essi preferisce piuttosto gli inviti, gli appelli e le riserve. Il Capo dello Stato ha da tempo dimostrato quale sia la sua interpretazione del ruolo che ricopre. Ed è questa: che il Presidente della Repubblica deve attenersi, nella maniera più fedele possibile, a quanto prescrive la Carta, e che il suo è un ruolo puramente istituzionale e non politico. Di questo non si può che prenderne - anche con l’animo leggero - atto. C’è solo da vedere quanto possa essere conveniente, vista l’attuale situazione politica. Di certo nessuno potrà accusarlo di aver esposto intenzionalmente il Quirinale a critiche sulla gestione degli affari istituzionali, men che meno sulle intrusioni nel conflitto politico. Tutte le volte che ha potuto rimanerne distante, e ce ne sono state, lo ha fatto. Di licenze se n’è concesse poche, anzi nessuna. Nelle fasi calde, e ce ne sono state,  in cui poteva scegliere se intervenire duramente o meno, ha scelto il meno, invitando bonariamente maggioranza e opposizione alle “riforme condivise”. Ma, lungi dal fargliene una colpa, non gliene facciamo nemmeno un merito. È tuttavia evidente che il Presidente della Repubblica goda attualmente di un larghissimo consenso popolare, ed è certamente candidato ad entrare nell’albo dei Capi di Stato italiani più amati. Più che di consenso, in realtà, si dovrebbe parlare di fiducia. Ed è anche ovvio che ce l’abbia, tutta questa fiducia, a fronte del lordume di cui si è insozzata la classe politica del nostro paese. Si potrebbe perfino azzardare l’ipotesi che se Napolitano mantiene un’ascendente così forte sugli italiani, non è tanto merito suo, quanto un demerito dei politici. In ragione degli scandali che hanno toccato, chi più chi meno, tutti i partiti – e tutte le cariche dello Stato-, l’opinione pubblica non sa a chi aggrapparsi se non all’unica figura che ha ancora una reputazione vergine e intatta. Un simile atteggiamento si attaglierebbe molto bene alla natura di noi italiani, se si pensa che già Gramsci sentenziò: “Si dovrebbe pensare che in Italia la stragrande maggioranza fosse di bricconi, se l’esser galantuomo veniva eletto a titolo di distinzione”. Tuttavia, Napolitano una risposta l’ha data, e ce la dobbiamo far bastare, almeno per ora. Molti avrebbero preferito che rispondesse più aspramente alle sciocchezze blaterate da Bossi, che fosse intervenuto con la sferza a riguardo dello scandalo escort di Berlusconi, che avesse richiamato tutti all’ordine con parole più simili alle pietre che al miele per la figura da pagliacci che stiamo facendo nel mondo intero, che avesse messo in riga la maggioranza per come sta affrontando la crisi economica. Qualcuno addirittura auspica che sciolga subito le Camere. Non sappiamo se tutto ciò rientri effettivamente nelle facoltà del Presidente della Repubblica. Le Camere, è ovvio, le può sciogliere, a patto che vi siano condizioni sociali e politiche particolari. Ma la dottrina, in merito, non è molto chiara. Se avessimo oggi al suo posto un Pertini, o addirittura l’ultimo Cossiga, ne avremmo di stare tranquilli. Via la parola ai Bersani, Di Pietro, Casini e Vendola, ci avrebbe pensato il Capo dello Stato a cantargliele di santa ragione a chi fosse uscito in maniera tanto disdicevole fuori dal seminato. Ma, purtroppo o per fortuna, di picconatori oggi scarseggiamo, e ci dobbiamo contentare di quel che abbiamo. Una persona integerrima, è chiaro, ma poco in sintonia con la provvidenza. Napolitano è l’uomo giusto al posto giusto, ma al momento sbagliato. E l’idea di dover rimpiangere la tempra dell’ultimo Cossiga, un po’ ci fa allarmare. Avremmo preferito, questo certamente, un “esternatore” alla Pertini, che non un “notaio” alla Napolitano. Ma la Storia insegna che se in pubblico i Capi di Stato tendono ad assumere atteggiamenti formali, nel privato della loro residenza non lesinano scenate e fracassi. E dato che nel pomeriggio il Capo dello Stato ha ricevuto al Quirinale i capigruppo di maggioranza Cicchitto e Gasparri, tocca sperare che almeno una tirata d’orecchie gliel’abbia fatta. Meglio di niente.

lunedì 19 settembre 2011

Crisi: è l'ora di lasciarsi andare al panico

Che di tutti i possibili approcci da assumere nell’affrontare la crisi economica mondiale, l’Italia abbia scelto il peggiore, è fuor di dubbio. Se dovessi scommettere ora su chi avrà la meglio tra il default e il nostro paese, non avrei alcuna esitazione su chi puntare: Italia – Crisi, due secco. È un po’ come se fossimo andati a un funerale con un vestito giallo sgargiante: l’abbiamo presa dal verso sbagliato. Il motivo è presto detto: un presidente del Consiglio la cui immagine è oramai compromessa sia sul piano nazionale, sia su quello internazionale, viepiù su quello dei mercati; il ministro dell’Economia il cui braccio destro Milanese è infangato nella vicenda P4; un leader dell’opposizione il cui braccio destro Penati è coinvolto in un’inchiesta di tangenti di cui non si poteva non essere al corrente; una manovra economica considerata da tutti gli esperti in materia finanziaria inadeguata, e per giunta controproducente per il paese; il leader del secondo partito di governo che, invece di chiamare a raccolta il paese per uno sforzo nazionale, pensa a indire un referendum per la secessione della Padania. È meglio fermarsi qui, se ci teniamo ancora a mantenere viva qualche flebile speranza. La situazione è di quelle che giustificano il più querulo allarmismo. Sebbene allarmarsi possa spesso essere nocivo, il non allarmarsi alle volte può essere letale. E noi italiani, esperti di vaglia nel “va tutto bene” potremmo imparare presto questa lezione. L’Italia sta affondando, questo qualcuno sembra averlo capito, altri no. Ma ora poco importa. La ricetta sicura per uscire da questa crisi, è bene chiarirlo, non la conosce nessuno, non la conoscono i tedeschi, tantomeno gli americani. Non è mia intenzione quindi stabilire qual è la soluzione alla crisi, non avendone né la capacità né la qualifica per farlo. Si possono però azzardare ipotesi su quali siano le condizioni migliori per affrontarla. E la prima è senza tema d’errore quella di un nuovo esecutivo. Chiunque andrebbe bene per presiederlo, anche la portinaia del nostro condominio (si fa per dire). I mercati già reagirebbero positivamente a un ricambio politico ai vertici. Ma questo può andar bene nel brevissimo termine, nel medio già sarebbe insufficiente e necessiterebbe di ulteriori accorgimenti. Inoltre, non c’è da spenderci più di una riga: Berlusconi non si schioderà dalla sedia nemmeno se fuori impazzasse la rivoluzione, e i suoi gregari non accennano minimamente all’idea di farlo sloggiare. Sperare nei giudici è allo stesso tempo pericoloso e inconcludente. Non solo non hanno i mezzi per sbattere il premier in galera o per indurlo alla latitanza, ma laddove ci riuscissero, metterebbero l’Italia di fronte a una sconfitta cartaginese, una Caporetto senza speranza di una Vittorio Veneto. Sarebbe una revolverata alla nuca per la politica italiana, perché privata della sua stessa ragione d’essere (lo tengano a mente coloro che sperano sempre e solo nella via giudiziaria). Se la politica ha da risollevarsi, è bene che lo faccia da sola, altrimenti è meglio che chiudiamo baracca – perché questo sta diventando il nostro paese, una baracca. Ma continuiamo. La Lega va fatta fuori: è ora di darci un taglio con l’idiozia della secessione di Bossi, che Maroni più bonariamente definisce federalismo, ma che sono in fondo la stessa cosa. Non si può amministrare un intero paese senza nemmeno fare mistero del reale intento di frantumarlo. È bene che questo punto sia chiaro, soprattutto a chi dice che ai leghisti non va dato tutta questa importanza: le fesserie padane ce le propinano da vent’anni, e se oggi l’Italia regge l’anima per i denti è anche grazie alla conventicola di Bossi. Se un giorno una bella fetta di Italia settentrionale si sarà lasciata convincere dalle fregnacce leghiste, sarà anche colpa nostra. Su questo, il Presidente della Repubblica potrebbe anche concedersi una licenza di deroga, e richiamare all’ordine Bossi. Nessuno glielo rinfaccerebbe, eviterebbe piuttosto che qualcuno un giorno prenda in mano il forcone e la faccia finire a pesci fetenti.

L’opposizione è meglio che si organizzi, ma non a chiacchiere come pensa di fare Bersani. Che, come primo segnale, potrebbe finalmente indire le tanto agognate primarie del Pd, a cui oramai non frega più a nessuno, ma che andrebbero fatte solo per principio, per misurare la sua reale propensione a fare quello che dice, e non solo a dire quello che vorrebbe fare. In tal caso, potrebbe anche capitare che gli soffino il posto, e non saremmo di quelli che se ne rammaricheranno. Se dovesse vincerle, invece, ne uscirà più forte che mai, e avrebbe già un piede a Palazzo Chigi. La maggioranza dovrebbe invece passarsi una mano per la coscienza, che già sa di avere parecchio sporca, dopo che ha stuprato la sacralità del Parlamento facendo mettere agli atti la balla che Ruby fosse, secondo B, la nipote di Moubarak. In Italia, si sa, le questioni non si risolvono mai alla luce del sole, si preferiscono i sotterfugi e i compromessi. E allora vi ricorressero. Prendessero accordi sottobanco con la minoranza, e se non vogliono perdere la poltrona andando alle elezioni, si accordassero per un governo di tecnici. Di tecnici seri, però, non di parolai e pataccari. Mettessero su una nuova manovra finanziaria, una riforma della legge elettorale e una riforma tributaria che scongiuri l’evasione fiscale, il vero cancro del paese. In due anni possono farlo, se vogliono. I privilegi e gli stipendi se li tengano pure. Delle loro elemosine non sappiamo che farcene in questo momento. Non è il tempo di riacquistare la fiducia nella classe politica, ma quello di mettere al sicuro i gioielli di famiglia prima che la casa crolli. Se ci riusciremo, allora la classe politica ne uscirà – leggermente – rivalutata. E anche il nostro paese. 

venerdì 16 settembre 2011

La secessione di Bossi. La stiamo ancora aspettando


C’è da fare uno sforzo notevole per arrivare a comprendere come una persona possa sentirsi un seguace della Lega Nord. E anche se ci si sforza, non è per niente sicuro che si riesca ad afferrare la ragion d’essere di un partito irrazionale. C’è scritto seguace, e non elettore, non per caso. Per dare il proprio voto al partito di Umberto Bossi più che la fiducia in un movimento politico, c’è bisogno di un vero e proprio atto di fede, che proprio perché è fede non necessita di essere giustificata. O lo si è, o non lo si è leghisti, di certo non lo si diventa. Il fenomeno leghista è certamente preoccupante, a fronte del 10% di suffragi che si prevede possa ottenere alle prossime elezioni. Ed è preoccupante non tanto perché è un partito di destra, reazionario, secessionista, razzista, ma perché non ha ragione d’esistere. Eppure esiste. Quando una larga fetta di popolazione comincia a lottare per delle cause fittizie, completamente avulse dalla realtà, è allora arrivato il momento di picchiare i pugni sul tavolo e far volare le stoviglie. La Lega Nord è il partito del nulla. Non vanta nessuna tradizione storica, né tantomeno si rivolge a un elettorato specifico per ceto o per ideologia politica, quanto piuttosto per occorrenze geografiche. Umberto Bossi è forse l’uomo politico più ignorante che la nostra amministrazione abbia mai offerto, ma che ha fatto della sua ignoranza la sua forza. Ha certamente saputo interpretare i malumori di una consistente fetta del paese, ma invece che alla testa del suo elettorato, si è rivolto alla pancia. E in effetti, per votarlo, ci vuole stomaco. L’Italia ha forse buttato un po’ troppo sulla mutanda l’avanzata leghista, e questo lassismo ha portato la Lega a raggiungere una porzione di potere assolutamente determinante in una consultazione elettorale, legittimandola come partito di governo di un paese da cui auspica separarsi. Dal tradizionale comizio del Monviso, il ministro delle Riforme ha dato la stura alla sua dialettica pregna di riferimenti ai miti padani, dall’esercito del nord alla secessione, tanto acclamati dalla folla lì riunita. C’è tuttavia da dubitare che nemmeno il capoccia sappia come cavarsi d’impaccio dalla situazione in cui si trova, ovvero di membro di un governo in un paese che lui sente, o dice di sentire, estraneo. Il dubbio sorge spontaneo quando si ascoltano le sue giustificazioni sul perché la Padania, regione chimerica, faccia ancora parte dell’Italia. Dice, l’Umberto, che bisogna attendere condizioni storiche favorevoli affinché qualcosa possa davvero cambiare. Così come c’è da essere scettici quando giustifica il mancato intervento della Lega durante il giro della Padania per i continui tafferugli verificatisi. Se fosse intervenuto lui, dice sempre l’Umberto, avrebbero sospeso il giro. Tuttavia non c’è da star troppo distratti. Milioni di persone sono già pronti sulle rive del Po in attesa di un lampo. Dopo il lampo, la Padania sarà fatta. Ahinoi, i leghisti, fantomatici rampolli dei Celti e di Dio solo sa cosa, sembrano, pur avendo abitato con noi italiani per tutti questi anni, non aver per nulla compreso la lezione che il nostro paese ha impartito a se stesso, e quindi anche a loro. La lezione è questa: che per fare un paese ci vuole un popolo. Se per fare l’Italia bisognava fare gli italiani, per fare la Padania ci vogliono i padani. I padani, ci duole constatarlo ancora una volta, purtroppo non esistono, a meno che non vogliamo intendere per popolo padano quei quattro scalzacani gonfi di protervia che vanno in giro di verde vestiti facendo gestacci, rutti e piriti. Montanelli, che c’aveva visto lungo, già nel ’94 definì Bossi un cavernicolo. E dopo vent’anni risulta ancora difficile trovare una definizione più adeguata del personaggio. Insomma, piuttosto che vederlo aggirarsi nel Palazzo completamente disinteressato alla sorte dell’Italia, verrebbe quasi da sperare che un giorno il capoccia dei Celti lo metta davvero su questo tanto sospirato esercito padano. E c’è da augurarsi persino che ci muova guerra. Se questo fosse l’unico modo per sbarazzarsi della palla al piede legista, così sia. Non impiegheremmo un secondo a schiacciarli sotto il tallone. A patto che, sul campo di battaglia, si presenti qualcuno.

giovedì 15 settembre 2011

Vaticano pagaci la manovra. 17 settembre manifestazione a Roma




Che il Vaticano sia una palla al piede per l’Italia, fiscalmente parlando, è oramai acclarato. Durante i mesi di questa calda estate un’ondata di disapprovazione e di sdegno nei confronti dei tanti privilegi di cui gode la Chiesa nel nostro paese è emersa, e anche fortemente. Il partito che l’ha giustamente cavalcata è stato quello dei Radicali, che nel chiedere un pizzico di equità sociale gli si fa anche un torto a definirli radicali. In questo senso, dovremmo essere tutti un po’ radicali. Soprattutto se per moderati s’intende poi Pd o Pdl, che tendono a confondere il moderatismo con il lassismo. Non staremo qui ad elencare i favori fiscali (dall’ottoxmille all’Ici) di cui la Chiesa è da tempo beneficiata, le inchieste de L’espresso fanno scuola. Proviamo piuttosto a chiederci perché la Chiesa gode di tali privilegi e perché nessuno accenna a inficiarli. La risposta è più semplice di quanto non sembri. Ed è questa: l’Italia è fondamentalmente un paese cattolico. Cattolico non in senso religioso, ma in senso politico. Da quando è stata fondata la Democrazia Cristiana, salvo un primo breve periodo di scetticismo, la Chiesa ha prestamente compreso i vantaggi che poteva trarre da un’ingerenza o anche solo influenza nella gestione del paese. Sebbene la sfera religiosa e quella politica sembrino, a primo acchitto, completamente estranee l’un all’altra, in molti paesi occidentali, e soprattutto in Italia, esse sono più intrecciate di quanto la ragione e la prassi consiglino. Basti pensare al fatto che l’istituto sacrosanto del referendum è nato in seguito all’approvazione della legge sul divorzio, nel 1970. Si pensava, scioccamente, di poter abrogare fin da subito tale legge, complice anche la mancata comprensione della natura della società italiana che, sebbene si professi sempre fedele ai dogmi cattolici, nel privato non esita a infrangerli.
Domani 17 settembre è prevista una manifestazione a Roma per dar voce a tutti coloro che sono oramai stanchi dei privilegi vaticani. Una manifestazione sacrosanta, è bene dirlo e ribadirlo. Essa è certamente un passo ulteriore nel processo di secolarizzazione del clericalismo, che da ben due millenni ci attanaglia. Ciò nonostante, siamo ancora all’inizio del cammino. Si badi, qui non si sta criticando la Chiesa da un punto di vista religioso, ma solo da quello clericale e politico. Ognuno è libero di credere alle fesserie che vuole, a patto che queste fesserie non portino con sé uno strascico nella gestione di un paese quale è l’Italia. Comunque, per chiunque si aspetti una subitanea presa di coscienza da parte della società civile e della classe politica dell’impellenza di affrontare questa tematica, è il caso di smorzare un po’ le aspettative. Nella manovra, è fuor di dubbio, non ci sarà nessuna abolizione né tantomeno ridimensionamento dei privilegi del Vaticano. Ed è assolutamente ragionevole. In Italia, paese fortemente cattolico, quanto dice la Chiesa è legge. In uno stato governato da un piazzista la cui condotta sarebbe facilmente e doverosamente attaccabile dalle alte sfere del clero e che pure ne è immune (salvo qualche critichina d’obbligo), è evidente l’esistenza di una connivenza tra potere politico e potere religioso. In tempi di crisi, dove per fare una manovra è quasi impossibile reperire fondi senza sollevare proteste di categoria, sarebbe fin troppo semplice dare un taglio netto ai benefici fiscali del Vaticano per irrorare le casse dello Stato. Tuttavia, se vogliamo rendere un favore alla nostra intelligenza, dobbiamo evitare di stupirci se nessuno lo fa. E fa anche bene a non farlo. Quale partito politico attaccherebbe il ventre del Vaticano ben sapendo che il più vasto bacino elettorale del paese è proprio quello cattolico? La Chiesa, in tal caso, impiegherebbe meno di un secondo per far perdere a un partito quel 10% (se non di più) di voti, ammazzando definitivamente le sue speranze elettorali e condannandolo all’oblio politico. Non è un caso, infatti, che in ogni partito ci siano le correnti cattoliche, e di solito sono anche le più influenti.


Insomma, va bene oggi scendere in piazza e protestare contro i privilegi fiscali del Vaticano. A patto che le domeniche, piuttosto che andare nelle piazze, si vada a protestare all’uscita delle chiese. Solo così infatti si potranno informare i cittadini di come quella Chiesa, che essi venerano ciecamente, non esiti a rubare l’argenteria in casa loro. E di come lo faccia anche sfacciatamente, perdio.

mercoledì 14 settembre 2011

L'altra Italia









La scena che vede l’ex ministro Andrea Ronchi all’uscita di Montecitorio insultare i manifestanti dei Cobas potrebbe essere interpretata da qualcuno come la fine di un’era. Un po’ come lo fu, con le dovute precauzioni, il lancio di monetine in direzione di Craxi davanti all’Hotel Raphael. Ma si sbaglierebbe.

La fiducia degli italiani nei confronti della classe politica è certamente poca, ma quella degli italiani in se stessi è probabilmente nulla. È certamente facile, e doveroso, criticare i nostri parlamentari, che da tempo immemore si comportano al di là di ogni limite della comune decenza. È tuttavia doveroso, ma più difficile, criticare la società italiana, che quella classe politica l’ha scelta e l’ha difesa, fino a quando non si è resa conto, con colpevole ritardo, della fregatura che le è stata riservata. Gli italiani sono spesso stati guidati dalla loro doppia morale, che applicavano all’universo a seconda della loro convenienza. Perché è sempre stata la convenienza, personale o di casta o di partito o di gruppo, l’unico punto fermo dell’agire nostrano, da quando l’Italia è nata – se è nata e quando solo Dio lo sa. Va di gran moda oggi appostarsi fuori dalle aule del Parlamento e gridare “buffoni” ai politici che si tuffano lestamente nelle loro auto blu. Non che non siano buffoni, è chiaro. Ma è un po’ troppo semplice, e anche infantile, mettere sulle poltrone dei cialtroni patentati per poi, quando si capisce d’aver preso il granchio, pretendere che le liberino al nostro schioccar di dita. Ora che stanno seduti, non s’alzeranno fino a quando il loro didietro non bruci. Con ciò non intendo fare un’inutile polemica. Intendo soltanto dire nient’altro che questo: va bene criticare i politici, e a volte anche insultarli, dato l’inesorabile declino a cui ci stanno condannando. A patto che non dimentichiamo la nostra fetta di responsabilità, che è pure bella grossa. Noi italiani non siamo soliti far ricorso all’esercizio della memoria, e ce ne accorgiamo ogni volta che ci fregiamo del mito della Resistenza, lasciando nel cantuccio dei ricordi impolverati l’altra Italia, quella di Piazzale Loreto, troppo diversa e troppo colpevole. Quell’Italia che senza scrupoli sputò, orinò, insultò, vessò, sparò sui cadaveri a testa in giù dei capi fascisti, gli stessi capi i cui nomi erano acclamati dalla folla soltanto pochi anni prima.

Sicuramente noi italiani ci conosciamo meno di quanto ci piacciamo. E probabilmente ci piacciamo meno di quanto pensiamo.